Fonte testuale www.inchiestaonline.it

Mario Agostinelli | 25 ottobre 2011 |

Mario Agostinelli chiarisce il percorso riconversione-conversione ecologica con due esempi: il decentramento dei sistemi energetici e la riconversione dell’Alfa Romeo di Arese

Il concetto di conversione richiama la categoria del comportamento e le convinzioni essenziali a cui si ispira  la coscienza individuale e/o sociale.  È parola a dimensione prevalentemente etica, che riguarda innanzitutto la sfera personale e indica, anche metaforicamente, il percorso cosciente di un cammino altro da quello precedentemente compiuto. Quando invece parliamo di riconversione e la associamo, come in genere accade, alla produzione di merci o servizi, indichiamo per lo più una decisione presa nella sfera economica – e talvolta politica –  per destinare a nuove finalità delle attività ritenute in qualche modo esaurite, o non più “convenienti”, o, addirittura, non più compatibili con l’evoluzione della situazione di cui hanno fatto parte. In effetti, queste definizioni sono fornite qui in forma approssimativa, ma mi servono per fornire la “cifra”  della crisi più profonda e più complessa che la modernità abbia fin qui affrontato. Davanti alla minaccia di sopravvivenza della biosfera, alla crisi autentica di civiltà e all’incapacità di alimentare il meccanismo di crescita sviluppato e portato al parossismo dalla dittatura di un potere finanziario avverso alla democrazia, conversione e riconversione avvicinano i loro campi di azione: nel dibattito in corso tutti convengono che non sarebbe possibile una efficace alternativa economica e politica al meccanismo economico distruttivo in atto senza una profonda revisione dei comportamenti, del rapporto uomo-natura, della finalità sociale, “extraeconomica” del lavoro. La “conversione ecologica”, che ho avuto l’occasione di apprendere da  Alex Langer quando già era in corso la mia esperienza sindacale, comunicando così lungo un crinale che allora sembrava dover mantenere separati due mondi,  oggi rimanda obbligatoriamente sia alla dimensione personale e soggettiva delle trasformazioni proposte, sia alla loro dimensione oggettiva e sociale (dai nuovi prodotti, ai nuovi rapporti di mercato e di cooperazione, alla nuova organizzazione del lavoro). E, a sua volta, la riconversione produttiva non può più prescindere dalla sua desiderabilità sociale e ambientale. Lungo questo percorso, è stato soprattutto Wolfgang Sachs negli anni ’90 a chiarire come giustizia sociale e giustizia ambientale dovessero ricongiungersi inevitabilmente. E a dieci anni da Porto Alegre e da Genova, il movimento può ormai far propria una lettura organica delle ragioni della crisi in corso e della sua irreversibilità, che riguardano una serie di rotture e conflitti oltre quello tradizionale –  pur sempre determinante – tra capitale e lavoro e che hanno ormai conquistato la parte più avanzata delle organizzazioni dei lavoratori.

Per l’ambito che riguarda queste note, ciò comporta di riportare, tanto in sede locale e nazionale, quanto in campo continentale e planetario, il sistema produttivo entro un quadro di sostenibilità imposto dai limiti fisici e biologici del pianeta in cui viviamo, salvaguardando, potenziando e qualificando l’occupazione e valorizzando la dotazione di tecnologia, di impianti e di conoscenze dell’apparato industriale e produttivo esistente, fino a farne il punto di partenza di una riconversione votata sì alla discontinuità, ma gestita democraticamente.

Si può finalmente aprire un dibattito nel Paese sulla mancanza di una politica industriale e sul declino del nostro sistema produttivo, che riproduce condizioni di lavoro dequalificate, perde posizioni nella competitività internazionale, è fonte primaria di una precarizzazione che investe l’intera esistenza e alimenta un sistema di consumi e uno spreco di risorse naturali che pregiudicano la salute e le possibilità di vita delle prossime generazioni. Si può partire da una coscienza individuale diffusa che percepisce il cambiamento in modo diverso dal passato e non più progressivo e che esige perciò valori e priorità da ridefinire. Si può tener conto di come il territorio, all’esperienza lavorativa, sia fonte di constatazione dell’inadeguatezza di una crescita che non redistribuisce ricchezza e spreca lavoro e natura. Si può, infine, considerare l’attuale sconfitta del sindacato come la perdita di rappresentanza e di potere all’interno di un conflitto a cui la politica, aderendo in blocco all’ideologia neoliberista, non riconosce più centralità. Ma proprio riconnettendo individui, produzione, territorio e organizzazione, si può prendere atto della crisi dell’attuale modello di sviluppo e dei danni sociali e ambientali da riparare, per suggerire come percorso di lotta indispensabile quello di una diffusa riconversione industriale e di una nuova organizzazione del modo di vivere e di consumare nel territorio.

Una proposta in tal senso può trovare così un punto di iniziale agglutinazione nel lavoro di elaborazione intorno all’obiettivo della riconversione dell’apparato produttivo: a livello sia locale – soprattutto nei punti di maggior crisi occupazionale – che regionale, nazionale e planetario (agire localmente, ma pensare globalmente). Riguarda sia il fronte del lavoro e della produzione che quello del consumo e della distribuzione, oltreché, ovviamente, quello di una cultura condivisa che tenga tutto insieme.  Ha poi il vantaggio di mettere alla prova o di far maturare le conoscenze che ogni gruppo ha del proprio territorio di riferimento e di chi ci vive e ci lavora e offre il vantaggio – e il rischio – di mettere a confronto i saperi acquisiti con le urgenze del mondo del lavoro – le fabbriche che chiudono, o che chiedono di sopravvivere sussidiando produzioni insostenibili, il mondo dell’impresa,  quello del terzo settore, ma anche il mondo agricolo e della piccola distribuzione – e le amministrazioni locali.

Se si riflette sulla molteplicità di lotte in corso, saperi tecnico-scientifici, conoscenze del territorio e buone pratiche sono già il punto di forza delle esperienze di autorganizzazione più rilevanti degli ultimi anni: sia nei confronti di esperienze passate (per esempio nei confronti del ’68),  sia nei confronti degli avversari con cui ci si confronta oggi. Valga per tutti l’esempio della Valle di Susa: ma così è un po’ in tutti i campi (energia, trasporto, agricoltura, alimentazione, urbanistica, educazione, gestione rifiuti, mobilità, salute). Di conseguenza, sulla valorizzazione di saperi, conoscenze e buone pratiche e sull’innesco diretto con le rivendicazioni territoriali e del mondo del lavoro può essere a mio avviso costituito un patrimonio comune e condiviso da tutte le aggregazioni impegnate nella costruzione di una alternativa radicale al pensiero unico e al sistema liberista.

 

Dopo i referendum

 

Interpreto la straordinaria vittoria ai referendum di Giugno (tutti e 4 insieme!) come un esplicito richiamo alla supremazia della vita sull’economia, nella specifica riscoperta e valorizzazione  dei  cicli vitali sul territorio per acqua, sole, terra e aria, e come un inedito privilegio riconosciuto alle leggi della natura rispetto a quelle dominanti dell’economia. La questione energetica, dentro il nostro ragionamento, assume allora un’importanza cruciale, dato che l’abbandono del nucleare prevede un passaggio accelerato da sistemi centralizzati ed extraterritoriali, propri dell’era fossile, a sistemi decentrati, alimentati da fonti rinnovabili e integrati e programmati   nel complesso delle risorse territoriali, anche per i loro riflessi sullo sviluppo dell’occupazione, oltre che per gli effetti sulla salubrità della produzione e sulla riduzione del consumo. Vengono così portate in primo piano le ragioni di un modello che prende ad imitazione la natura, che si riappropria del tempo, che applica la parola tagli agli sprechi, anzichè ai bisogni e ai diritti, e che punta a riarmonizzare lavoro e natura. In una simile prospettiva, che implica una gigantesca riconversione, c’è un assoluto bisogno di sindacati autonomi e di riportare al centro del conflitto l’impiego stabile, la sua qualità complessiva, i diritti di un potere democratico diffuso che non si ferma alle soglie del mondo del lavoro. Altro che accettare, come improvvidamente ha fatto anche la CGIL, quel collegamento in negativo tra riconversione e investimenti imposto da Marchionne e dalla Confindustria con l’accordo del 28 Giugno! Una sottrazione di titolarità nei confronti di un soggetto costituzionalmente preposto a organizzare il negoziato per le scelte produttive e per le condizioni di lavoro e costretto invece a subire l’arbitrio dell’impresa, accettare deroghe al contratto nazionale, fino a rinunciare agli strumenti di lotta che conferiscono potere ai lavoratori.

 

Partire dal territorio

 

Le “parole chiave” di seguito riportate alludono a concetti e, più precisamente, a fratture, che contraddistinguono un’epoca in cui le trasformazioni risultano spesso più profonde delle nostre radici culturali e denotano conflitti che rivelano l’affanno della stessa democrazia liberale che conosciamo, segnalata dalla pesante estromissione cittadini dalla partecipazione e dalle decisioni che li riguardano. Si tratta di autentici cleavages, la cui ricomposizione si situa per ora ancora lontana nel tempo e evoca semplicisticamente, ma efficacemente,  un mondo diverso e possibile. Ho provato a stilare un elenco di termini attorno al quale concretamente si stanno sviluppando pratiche, lotte, cenni di riunificazione: pace e multiculturalità; beni comuni e stili di vita; riconversione produttiva e senso del lavoro; rappresentanza e autogoverno.

Se dovessi indicare una linea di percorso, sosterrei  – a fronte di una crisi di civiltà – che il territorio è il luogo da cui ripartire, la riappropriazione del lavoro e i diritti dei lavoratori sono il passaggio cruciale per sostenere il conflitto per un mondo diverso, l’abbandono del concetto di crescita costituisce la direzione univoca verso cui procedere, la ricostruzione della rappresentanza il nodo politico da risolvere.

 

Per tornare al tema della riconversione, non possiamo prescindere dal fatto che, nel complesso, il futuro dell’economia dell’Occidente sarà dominato dalla stagnazione. Il percorso che cerchiamo di individuare – e che chiamerei “riconversione-conversione ecologica”- deve pertanto potersi adattare, nel bene e nel male, ad una situazione per la cui soluzione non abbiamo ancora “una cassetta degli attrezzi” adeguata, ma per cui disponiamo di una analisi ormai matura, che ho sommariamente tentato di abbozzare in precedenza.

La riconversione-conversione ecologica dovrà essere un fattore di condivisione di orientamenti, di collegamento operativo e di coinvolgimento diretto per gli attori dei prossimi conflitti sociali, per i promotori di buone pratiche, per i soggetti delle mille forme di resistenza molecolare alle forme in cui si esercita il dominio attuale del capitale, a partire dalla finanza.

Il fulcro della riconversione possibile è costituito dal passaggio da un modello di consumo fondato su un accesso individuale ai beni e ai servizi a forme sempre più spinte di consumo condiviso.

In questa prospettiva il fattore determinante che si evidenzia è la territorializzazione dei processi, il collegamento più diretto possibile tra produzione e consumo, al fine di ricostituire legami sociali che non siano fondati esclusivamente sul mercato, bensì “governati” attraverso il conflitto e la ricostituzione di un controllo condiviso (una forma di autogoverno) sui processi economici e sociali. Non tutto ovviamente può o deve essere “riterritorializzato” e gli stessi poteri da contrastare hanno sovente dimensione extraterritoriale. Ma è molto importante cominciare con l’avvicinare quanto più possibile  la produzione di beni fisici ai luoghi del loro uso o del loro consumo.

Mi è chiaro che per le produzioni industriali, i cicli richiedono spesso economie di scala che le collocano necessariamente al centro di “reti lunghe” di fornitura e di smercio che non possono essere ridimensionate oltre certi limiti. “Ciò non toglie che – come afferma Guido Viale – la conquista di nuove forme di controllo da parte delle comunità nel cui territorio questi impianti sono insediati (e che ne ricavano reddito e ne subiscono gli impatti sociali e ambientali) rientri a pieno titolo tra le finalità della conversione ecologica”.

Sono quattro le principali aree da porre sotto attenzione: le reti energetiche decentrate e il passaggio alle fonti rinnovabili; la lotta al cambiamento climatico e l’accesso alla mobilità; la tutela e la manutenzione dei beni comuni (acqua, suolo, alimentazione, salubrità dell’aria);  la riqualificazione dell’assetto urbano e il non consumo di suolo. Gran parte di questi temi è già stata sviluppata in varie sedi. Si tratta di realizzarne una sintesi con una dimensione operativa, esplicitando le diversità di orientamenti e di valutazioni riscontrate, per renderla disponibile a una platea di “utenti” non specialistici e più ampia possibile. Per le prime due aree riporto di seguito una mia esperienza diretta.

 

Un primo esempio: il decentramento dei sistemi energetici

 

Certamente un diverso modello energetico non può prescindere dalle tecnologie e dalle conoscenze che ne rappresentano la base materiale; tuttavia esso non si impone con la forza della necessità o della sua peculiarità o desiderabilità. Per abbandonare e sostituire un sistema energetico con le caratteristiche di quello odierno, occorrerebbe contemporaneamente individuare non solo un’alternativa all’attuale modello di produzione e di consumo e di controllo autoritario delle società, ma anche sostenerla con grande convinzione politica, anche ricorrendo a imponenti ed estese lotte, che non possono prescindere da un impegno diretto del mondo del lavoro, laddove si potrà verificare uno scontro diretto e non componibile di interessi.

Occorre peraltro avere chiaro che non è assolutamente sostenibile con le fonti rinnovabili un sistema energetico che lasci inalterata la attuale domanda di energia. Il rapporto energia-territorio dovrebbe essere così pensato nella sua complessità e

indissolubilità. Già questo fatto fa intravedere l’enorme lavoro che l’assunzione del

nuovo paradigma energetico porterebbe con sé, dato che obbligherebbe a ripensare

innanzitutto la pianificazione territoriale e l’urbanistica.

Proprio per le sue peculiarità, la nuova energia potrebbe essere pianificata diffusamente nell’ambito dell’autogoverno comunale con la partecipazione della popolazione locale.  Il potenziale di energie rinnovabili, disponibile autonomamente, potrebbe così essere attivato anche prescindendo da accordi con i fornitori di energia primaria, e poiché il mercato delle rinnovabili è orientato al soddisfacimento della domanda locale, per la sua attuazione e gestione verrebbero privilegiate e promosse strategie comunali e regionali, con un conseguente decentramento delle politiche industriali. Dico politiche industriali, perché la quantità di nuovi prodotti e di sistemi richiesti richiede lo sviluppo di interventi settoriali a dimensione molto ampia e coordinata, con effetti rilevanti sull’occupazione e sulla riconversione dell’apparato produttivo in crisi.  I costi energetici conseguentemente pagati dalla comunità rimarrebbero prevalentemente nel ciclo economico regionale e comunale e i rispettivi piani di governo del territorio verrebbero ridisegnati sulla base delle esigenze energetiche codecise nel territorio stesso.

Sul territorio il bilancio energetico e il suo impatto ambientale acquisterebbero una inedita trasparenza e il conseguente governo pubblico per il mantenimento di un bene comune come l’energia, da trasferire alle future generazioni, diventerebbe fonte di partecipazione, occasione di studio e ricerca, garanzia di promozione di lavoro stabile e qualificato. La gestione della produzione e della distribuzione locale potrebbe essere affidata a forme consortili o cooperative, che comprendono le Amministrazioni pubbliche e i soggetti privati produttori di energia da fonti rinnovabili.

Ricordo qui che, dal punto di vista degli interessi finanziari, lo sfruttamento delle fonti rinnovabili sta attraendo nuovi tipi di investitori collettivi (fondi pensione, istituzioni finanziarie, municipalizzate, cooperative di consumatori-produttori): sarà più facile di conseguenza sviluppare un controllo partecipato e pubblico e aprire nel settore per eccellenza dominato oggi dalle multinazionali e dal capitale finanziario,

una opportunità come quella lanciata dai movimenti per l’acqua per la sua de-privatizzazione. Risparmio energetico e fonti rinnovabili possono così far parte dell’innesco di  una terza rivoluzione industriale e rappresentare i capisaldi per realizzare una organizzazione democratica della società ecosostenibile, ossia una società che soddisfa i propri bisogni senza alterare i complessi meccanismi che reggono il clima e che investe in lavoro sostitutivo dello spreco irreversibile di natura, che ha invece caratterizzato, con un processo opposto a quello qui auspicato, l’epilogo della seconda rivoluzione industriale.

 

Un secondo esempio: la mobilità e l’ALFA di Arese

 

Richiamo l’esperienza all’ex Alfa Romeo di Arese, perché l’immagine di questo monumento della industrializzazione taylorista è ancora ben presente. Lo faccio perché costituisce il simbolo cocente di una sconfitta su un fronte che, se non rimontato, non riguarda solo la mobilità sostenibile, ma l’intero sistema energetico o quello alimentare o il futuro delle biotecnologie, o, ancora, la riconversione dell’edilizia come occasioni per lanciare un’innovazione del sistema industriale ispirata alla soluzione di grandi questioni collegate alla qualità della vita e al recupero del patrimonio naturale.

La scommessa della possibile riconversione dell’Alfa Romeo dal prodotto auto alla mobilità sostenibile aveva assunto a fine millennio un significato denso e particolare. Analizzare oggi le motivazioni e le responsabilità del suo insuccesso serve a descrivere meglio la classe dirigente nazionale e, in questo caso, la Lombardia reale, con cui fare anche politicamente i conti in futuro.

Il progetto di un “polo” sull’area di Arese di attività di ricerca, servizio e industria manifatturiera orientato a fornire prodotti e servizi per un sistema di “mobilità sostenibile”, è stato conquistato in una lotta sindacale unitaria ed esemplare.  Un progetto che coniugava politiche industriali, qualità della vita, occupazione, emergenza ambientale e impegno pubblico. L’idea sottostante costituiva, per certi versi, un rovesciamento del tradizionale rapporto tra territorio e industria: non più “ciò che è buono per l’impresa deve necessariamente essere buono per il territorio”, che ne subisce tutte le esternalità scaricate, bensì “ciò che è buono per il territorio genera una domanda di prodotti e servizi che costituisce un’opportunità per l’industria”.

La decisione di cambiare prodotto, sostituendo ad una merce tradizionale un “obiettivo sociale” come la mobilità sostenibile, è nata in lunghe discussioni, innumerevoli incontri, riunioni dei consigli di fabbrica, assemblee e votazioni. È interessante come da una vicenda concretissima, scandita da scioperi, lotte, trattative, ma che ha saputo riscoprire il valore sociale del lavoro e compiere una maturazione culturale complessa per superare una dimensione prevalentemente difensiva, si sia configurata una risposta industriale credibile, un tentativo di corposo insediamento manifatturiero non tradizionale.

Nella prospettiva di un ridisegno sistemico del trasporto di persone e di merci, l’area di Arese sarebbe diventata l’epicentro di un progetto che si proponeva la costituzione di un distretto innovativo per il settore automotive e il re-insediamento di attività manifatturiere, collegate alla possibilità di riduzione dei volumi di traffico, alla riorganizzazione della logistica delle merci, alla produzione di veicoli a basso impatto ambientale, inizialmente favoriti nella loro diffusione da una politica pubblica delle amministrazioni in stretto rapporto con i loro cittadini e, infine, sostenuta dalla diffusione delle strutture adeguate al loro successo. Veicoli di nuova concezione, alimentati con combustibili alternativi, incentivati da politiche appropriate per preparare nella transizione le infrastrutture per un trasporto progressivamente sempre più alimentato da idrogeno ed elettricità ottenuti da fonti rinnovabili.

Il cambio radicale del sistema dei trasporti, ormai vicino al collasso nelle aree più sviluppate e praticamente impossibile ad essere riprodotto nelle zone in sviluppo, costituisce una delle sfide più impegnative del secolo appena avviato. Perciò la riorganizzazione della mobilità, il superamento dei carburanti fossili e il miglioramento dell’efficienza energetica avrebbe trovato nel sistema [idrogeno da fonti rinnovabili-celle a combustibile-motore elettrico] un contributo ed una soluzione promettente, mettendo insieme realisticamente locale e globale.

Credo si possa dire che ad Arese era nata una esperienza di grande rilievo, dove i lavoratori e le loro organizzazioni si erano promossi sul campo con un contributo dirigente, frutto di democrazia e di responsabilità. Non puntavano a difendere solo i loro sacrosanti diritti, ma pensavano anche agli interessi generali del territorio e delle future generazioni. Uno scenario avanzato, quello in cui si sono mossi allora i sindacati, che oggi l’accordo del 28 Giugno renderebbe impraticabile.

Ma il progetto elaborato dall’Enea per conto del sindacato e della Regione è rimasto in un cassetto. Hanno prevalso già cinque anni fa la messa a valore del patrimonio finanziario che Fiat distoglieva dagli usi produttivi e la avversità totale della Giunta Formigoni ad occuparsi di conversione- riconversione ecologica. Oggi su due milioni di metri quadrati sorgerà il più grande complesso commerciale d’Europa orbitante nell’area della Compagnia delle Opere e si riverseranno gli interessi di speculatori attratti dagli affari promessi per Expo 2015. A testimonianza di quanto l’economia e la politica prescindano dagli obiettivi più drammaticamente urgenti e di quanto il mondo del lavoro paghi il suo isolamento.

 

Conclusioni

 

La partita è apertissima. L’insistenza di queste note sull’aspetto “ecologico” non deve apparire come un limite settoriale. C’è una implicita estensione ai beni comuni e alla destinazione di produzioni e consumi alla sopravvivenza della civiltà e alla perpetuazione delle sue radici nel lavoro. Non si tratta soltanto di comprendere che oggi la difesa dell’ambiente, le produzioni ecocompatibili, la produzione di energia con le fonti rinnovabili possono essere il terreno rinnovato di un nuovo business, come ormai si sente dire ovunque, ma di fare un passo avanti. Per correre più rapidamente dell’orologio climatico, in modo tale che dalla green economy si passi alla greening the economy, ovvero a una trasformazione dell’economia e a nuova concezione della crescita che, abbandonando il vecchio parametro quantitativo con cui veniva misurata, possa essere valutata e apprezzata per il suo aspetto qualitativo. Siamo nel pieno di una profonda trasformazione degli agenti materiali della crescita economica. Una costante accumulazione di nuove conoscenze scientifiche sbatte contro la gabbia dei rapporti di produzione e dell’attuale sistema delle diseguaglianze e delle inique ragioni di scambio mondiali. Liberarle è il compito che abbiamo di fronte ed è una sfida decisiva anche per il futuro del sindacato.

 

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Category: Ambiente

Mario AgostinelliAbout Mario Agostinelli: Mario Agostinelli (1945) ha lavorato come ricercatore chimico-fisico per l’ENEA presso il CCR di Ispra. Dal 1995 al 2002 è stato Segretario generale della Cgil Lombardia e nel 2004 ha dato vita al movimento Unaltralombardia, con l’obiettivo prioritario di rinnovare dal basso le forme della rappresentanza. Ha ricoperto un incarico istituzionale come Consigliere regionale in Lombardia, eletto come indipendente nelle liste di Rifondazione Comunista, e nel 2009 ha aderito a Sinistra Ecologia Libertà. Sul piano internazionale si è contraddistinto per un intenso impegno nel Forum Mondiale delle Alternative e nel Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre.

Di cinzia